A partire dalla situazione di Modena, Silvia Sitton di MioGAS svolge alcune riflessioni sulla partecipazione nei nostri tempi e propone qualche suggerimento per innescare il cambiamento.
Mi hanno chiesto di parlare di “partecipazione” nella rassegna di public talk organizzata da Active Community.
Sicuramente non farò una lezione sulla partecipazione, non è il contesto adatto e non penso nemmeno di essere in grado.
Piuttosto vorrei proporre alcune riflessioni che derivano dalla mia personale esperienza della città in cui sono nata quasi quarant’anni fa e in cui vivo tuttora e offrire dei suggerimenti per innescare cambiamenti che ritengo sempre più necessari.
Ragionando su come impostare l’intervento, mi sono accorta che l’immagine di Modena che prendeva forma mettendo in fila osservazioni su come la città viene usata dai suoi abitanti, risultava un po’ inquietante, ma dava luogo a un racconto anche molto interessante.
Per questo motivo ho pensato di scrivere le mie riflessioni e di pubblicarle in anticipo rispetto all’appuntamento pubblico del 10 marzo, sia perché leggendolo magari gli organizzatori cambiano idea e cercano un altro relatore, sia perché il tema è importante e l’occasione buona per avviare una discussione aperta sul futuro di Modena.
Prima di iniziare faccio una premessa: tutto quello che dirò lo dico perché Modena è un posto a cui voglio bene e a cui sono molto legata, pur essendo, oltre a una “piccola città”, anche il “bastardo posto” cantato da Guccini. O forse proprio per quello.
Inoltre sono un’inguaribile ottimista e penso che Modena abbia i numeri per innescare i cambiamenti positivi di cui ha fortemente bisogno. Il motivo per cui questi cambiamenti non avvengono è, a mio parere, che niente in questa città va poi così male, tutto più o meno funziona, la città è ordinata, non ci sono mai stati grossi scandali, e quindi perché cambiare?
In questo quadro di “ordine apparente”, la partecipazione è diventata superflua, ha assunto nel migliore dei casi le forme della consultazione, ma ha smesso di essere impegno civile, ha perso la spinta propulsiva che l’ha in passato resa uno strumento con cui perseguire la felicità pubblica. Non è un attacco a nessuno, è un fatto. Non serve fare polemiche su questo.
Questa situazione ha portato a un immobilismo e a una monotonia cittadina esasperata, in cui una scossa è assolutamente necessaria, se non vogliamo passare i prossimi anni a “piangere (inutilmente) sul latte versato”.
Ma in sostanza che cosa è successo alla partecipazione?
Da una parte la partecipazione è scaduta: magari, come per la farina scaduta, non fa venire il mal di pancia, ma comunque la gente guardando la data di scadenza preferisce non mangiarla. Questo è successo perché la partecipazione è stata usata come strumento di facciata, per dare l’illusione che i cittadini avessero voce in capitolo quando invece le decisioni erano già state prese a porte chiuse o ancora più frequentemente quando non sarebbero comunque state prese (restando a Modena, basti pensare all’esperienza tanto entusiasmante durante quanto avvilente dopo del progetto partecipativo delle ex-fonderie).
E visto che la partecipazione implica un grande impegno i cittadini hanno valutato che forse non valeva più la pena impegnarsi, a fronte di obiettivi non chiari e promesse che non venivano mantenute.
Carlo Ratti definisce questa “pseudo partecipazione”, una “base ingannevole”, ma allo stesso tempo uno “scudo socialmente accettabile” che viene usato per svilupparci dietro progetti già decisi, da non mettere nemmeno in discussione. La deriva di questa interpretazione è la cosiddetta “progettazione partecipata”, che già negli anni Sessanta si rivela come una via quasi a senso unico, fatta di questionari infiniti e di risposte svogliate rilasciate dalle parti interessate. Tutt’altra cosa rispetto all’energia magnetica creata da persone che si incontrano insieme, una forza dilagante, potente e incontrollata che cresce progressivamente e supera i limiti del controllo dall’alto.
Dietro questa doppia visione ci sta tutta la tensione tra apatia e anarchia che caratterizza da sempre la partecipazione, e che tante volte si è penosamente risolta nel grido collettivo “Non nel mio cortile!”, che paradossalmente ha molto più a che fare con l’individualismo che con la partecipazione. A chi obietterà alla mia affermazione sull’“arretramento della partecipazione” dicendo che Modena continua ad essere un territorio caratterizzato da una grandissima ricchezza associativa, rispondo con l’invito a riflettere sulla differenza tra il concetto di “membership” – in continua ascesa – e quello di “partecipazione” – in declino costante: a Modena ci sono tanti soci, ma pochi partecipanti. E il problema è che la voglia di comunità, l’impegno per la felicità pubblica, il civil engagement si attivano nella partecipazione, costruendo rapporti interpersonali quotidiani, non nello spazio virtuale della membership.
La questione è seria, ne ha scritto molto (suscitando reazioni forti, come si addice ai temi che toccano nervi scoperti) il sociologo e politologo Robert Putnam, che in “Bowling Alone” ha mostrato come dagli anni Ottanta in poi, almeno negli Stati Uniti, si sia assistito a un costante declino di tutte le forme di impegno civile.
Più recentemente lo stesso Putnam – sempre quello che dopo un viaggio in lungo e in largo per la nostra penisola aveva decantato il senso civico e lo spirito comunitario caratteristico di regioni come l’Emilia Romagna – ha messo in evidenza come qualcosa forse stava cambiando: nel suo “Still Bowling Alone?” instilla il dubbio che il ciclo politico fatto di interessi individuali e obiettivi privatistici sia terminato e che lentamente si stia entrando in una nuova fase di impegno pubblico.
L’alternanza ciclica tra fasi di impegno pubblico e periodi di ritorno al privato è la tesi del libro di Albert O. Hirschman “Felicità privata e felicità pubblica”. L’economista tedesco illustra come questa alternanza sia guidata dalla delusione, che porta le persone a cambiare preferenze, fino a che si supera una soglia critica e il ciclo si inverte. Sull’applicazione di questo meccanismo a fenomeni contemporanei come la cosiddetta primavera araba o il movimento degli indignati ha scritto pagine interessanti Luigino Bruni, tra i massimi esperti di economia civile in Italia.
Bruni si insinua nel ragionamento di Hirschman mostrando le differenze tra l’impegno civile degli anni Sessanta e Settanta, guidato dalle ideologie, a quello attuale, in cui sono temi trasversali come l’ambiente, l’energia, il cibo e in generale l’attenzione per i beni comuni, a portare le persone a riscoprire il pubblico.
E se i beni comuni diventano la regola, il rifugio nel privato non funziona più, la gente riscopre i beni relazionali e si rimette in gioco assieme, nella partecipazione.
Sottolineo “la gente” perché quello che serve oggi è un protagonismo diffuso, voci libere, diverse da quelle di molti di quei soggetti che nel tempo si sono istituzionalizzati, hanno adottato le logiche del controllo e della legalizzazione tipiche degli organismi pubblici e in questo modo sono diventati troppo attenti a difendere i loro interessi particolari.
La gente è espressione di diversità, e solo la diversità può portare a una visione collettiva, condivisa e partecipata.
La diversità è strettamente legata alla struttura della città, da cui deriva l’importanza della disomogeneità del tessuto urbano, dell’intreccio di usi, della vivacità, del dinamismo, della varietà di soggetti interagenti, condizioni necessarie a formulare obiettivi condivisi per mezzo di processi partecipativi.
È quanto ci ha lasciato in eredità Jane Jacobs, che con i racconti delle sue “passeggiate urbane” ha mostrato l’importanza di un uso misto e diversificato dello spazio cittadino, per garantire alti livelli di dinamismo e vitalità nei quartieri. In questo senso la concentrazione del commercio nei centri commerciali, così come la concentrazione dei poveri nei quartieri popolari, la costruzione di quartieri residenziali tutti uguali, la zonizzazione in genere contribuiscono a sviluppare una monotonia strutturale che porta anche ad uno stallo culturale e sociale.
A questo proposto rimangono estremamente attuali le considerazioni di Bernardo Secchi sulla città dei ricchi e la città dei poveri, che mettono a nudo come le ingiustizie sociali si rivelino sempre di più nella forma di ingiustizie spaziali: la domanda di politiche di esclusione, la richiesta di barriere alimentano l’intolleranza, la quale a sua volta nega la prossimità, e quindi la partecipazione, in un circolo vizioso difficile da spezzare. L’antidoto proposto da Secchi è l’investimento in attrezzature e spazi pubblici, su cuicostruire una nuova e adeguata proposta di recupero del collettivo, stimolando una partecipazione trasversale.
Oggi non c’è partecipazione perché non c’è urbanità, intesa come vita nella città. Per migliaia di anni la storia della città è stata la storia di un agire collettivo, in cui la partecipazione contribuisce allo slancio culturale più di quanto possano fare le azioni individuali.
Oggi il legame tra civitas e urbis si è spezzato, la città la maggior parte delle volte si limita a fare da sfondo al nostro agire, è diventata la somma di spazi privati, individuali, mentre dovrebbe essere un bene collettivo, costruita insieme ai cittadini.
In alcuni casi c’è un ordine superiore che guida il processo: è comune a tutte le nuove tirranie neoliberali non poter sopportare che i cittadini “usino“ la città (invece di consumarla soltanto); lo dimostrano le reazioni sconsiderate del governo contro i manifestanti di piazza Tahir, colpevoli di aver innescato la rivoluzione attraverso l’occupazione della piazza. È proprio il fatto di “aver ridato centralità al rapporto tra corpi urbani e spazi urbani” che, come ci racconta l’antropologo Franco La Cecla, scatena l’ira del tiranno, perché i movimenti di piazza restituiscono ai cittadini l’enorme potere della partecipazione: un potere che nasce da un senso di appartenenza ad una comunità, che per essere ricostruito ha bisogno di cittadini che si riprendano la città.
Un campo importante su cui provare a ricostruire il legame tra città e cittadini è la gestione dei beni comuni, intesi come beni pubblici relazionali. Su questo punto ci sarebbe molto da dire; per sintetizzare al massimo specifico che qui mi riferisco a quei beni comuni (come un parco, una piazza, ma anche una biblioteca, un campetto da calcio, una polisportiva) caratterizzati da non rivalità e non escludibilità nel consumo come i beni pubblici, ma che si riempiono di senso solo quando vengono consumati insieme ad altre persone (un parco vuoto o una biblioteca senza utenti, pur rimanendo beni pubblici, tanto senso non ce l’hanno, perché mancano dell’aspetto di partecipazione comune), perché i beni relazionali si sviluppano solo tra coloro che partecipano all’interazione.
La gestione dei beni comuni relazionali ha bisogno di partecipazione diffusa (per raggiungere la famigerata massa critica), reti di collaborazione orizzontali, meccanismi aperti di condivisione delle informazioni, ha bisogno di una “cultura del noi” che si alimenta soprattutto nella società civile e in famiglia, investendo in particolare sui bambini.
Tutto questo Rifkin lo chiamerebbe il paradigma del “Commons collaborativo”, un modello di organizzazione economica sostenuto dalla “rivoluzione del costo marginale quasi zero”, che spinge sulla collaborazione per alimentare partecipazione e creatività a livello sociale, che utilizza la condivisione per gestire in maniera più efficiente le risorse, che sostituisce l’accesso al possesso, che promuove una logica peer-to-peer, mossa da un interesse non strumentale per la comunità, con cui temperare le forme più estreme di individualismo.
La diffusione della privatizzazione in tutti i campi della nostra vita, a partire dall’abitare, è infatti uno dei grandi nemici della partecipazione: non ci può essere partecipazione infatti dove non c’è comunità, e la comunità, che si forma con l’interazione, il fare insieme, si è persa dietro la ricerca ossessiva del possesso.
In una società dove la proprietà privata orienta tutti i nostri comportamenti, la partecipazione si è così trasformata in una forma di protagonismo, figlia dell’individualismo dominante.
È la logica difensiva di chi pensa “meglio io che un altro”, rispetto alla logica open che agisce in base all’idea “meglio io che nessuno”: da una parte l’obiettivo è emergere singolarmente, usare la partecipazione per raggiungere obiettivi individuali e non appena li si raggiungono chiudere in un cassetto partecipazione e condivisione per ristabilire rapporti gerarchici e logica del possesso. Dall’altra idriver sono collaborazione, autogestione, sviluppo di reti laterali e interesse collettivo, con i quali ricostruire un vero movimento sociale.
Per promuovere una partecipazione open, a mio parere bisogna fare alcune cose, le scrivo.
- Incentivare la partecipazione spontanea, quella degli attori sociali senza nome, quella che privilegia le regole informali sugli apparati di norme e tecniche, quella che include tutti, quella che si sviluppa nelquotidiano, nell’uso dei parchi, degli spazi pubblici, della rete internet, delle attrezzature urbane. Pensandoci bene questo è un attacco ai poteri consolidati, che operano attraverso canali esclusivi, per i quali apertura e condivisione sono una minaccia. Non stupisce quindi che la partecipazione spontanea sia osteggiata se non a parole nei fatti da più fronti. Creare le condizioni per far nascere occasioni di interazione spontanea, combattere il crescente anonimato delle relazioni tra cittadini, rafforzare le forme di collaborazione spontanea sono possibili aree d’azione di una politica illuminata.
- Lasciare che i cittadini si riprendano la città, che significa innanzitutto restituire alle strade la loro funzione sociale, come direbbe Jane Jacobs: la strada infatti dovrebbe favorire i contatti umani, promuovere una vita sociale a carattere pubblico, sviluppare anche tra persone che non si conoscono connessioni collaborative, fondamentali in caso di bisogno individuale o collettivo. Il dominio automobilistico, che dalla strada si è diffuso alla politica, ha alimentato l’individualismo, l’isolamento e la diffidenza verso gli altri, ha spento il valore sociale della strada (oltre ad aver alimentato un diffuso senso di insicurezza e paura). Anche a Modena non c’è tanta luce da questo punto di vista: la politica delle rotonde, le strade urbane a scorrimento veloce, l’assillante preoccupazione del parcheggio, la levata di scudi contro ogni proposta di chiudere al traffico un’area, sono tutti esempi di come una città costruita intorno ai veicoli “tolga valore ai piedi umani” e paralizzi la possibilità dei cittadini di usare le strade nel senso proposto da Jane Jacobs.
- Combattere la propensione generale (e molto rischiosa) a concentrarsi ciascuno sui propri ambiti di interesse, secondo una logica a silos, e al contrario incentivare i movimenti trasversali, l’incontro “orientato al fare” di categorie di soggetti tradizionalmente lontani tra loro. Su questo l’arte e la cultura possono svolgere un ruolo chiave, in quanto capaci per loro natura di aggregare persone anche molto diverse intorno a una dimensione collettiva condivisa, quando invece oggi la partecipazione spesso è la manifestazione di preoccupazioni tutte individuali. Favorire la contaminazione delle persone e delle idee, sviluppare ambienti di interazione aperti, dare ai cittadini la possibilità di agire e non solo di discutere, sono impegni che il mondo della cultura deve assumersi, per difendere la città dalle tendenze antisociali e stimolare la partecipazione attiva.
- Adottare strumenti wiki che in sostanza sfruttano le potenzialità di Internet per raggiungere tante persone e permettere loro di collaborare insieme, sviluppare forme di partecipazione orizzontali, mobilitare l’intelligenza collettiva. Sul concetto di “wikicrazia” qualche anno fa ha scritto un libro che ogni amministratore pubblico dovrebbe tenere sul comodino Alberto Cottica, modenese di nascita e cittadino del mondo di adozione. È sua la frase “se vuoi cambiare il mondo, devi attivare le persone” e io sono pienamente d’accordo.
Foto di Carlo Lugli