Salta al contenuto principale

Iscritto da

9 years 11 months
redazione ,
888
Un altro mondo

Ora che i principi dell'economia del noi si sono affermati nell'immaginario è iniziata la grande sfida: l'assimilazione capitalista cerca di rivoltare le pratiche solidali orientando i flussi economici a vantaggio di pochi; come reagiremo?

Andrea Saroldi, 28 febbraio 2015.

Venti anni fa la difficoltà stava nel dare valore e sostanza ai concetti di equo, ecologico, locale, solidale, relazioni e condivisione alla base dell'attività economica; sembravano idee sempliciotte uscite da una favola per bambini, di quelle che si abbandonano quando si scopre chi è Babbo Natale, per poi tornare ai raccontarle ai propri figli piccoli sapendo però che la vita vera funziona in altro modo.
Ma queste categoria corrispondono a bisogni reali, per questo motivo molti adulti cercano di applicarle alla loro vita, e così ora mi sento di dire che questi valori sono passati nell'immaginario, sono riconosciuti; solidarietà, energia pulita, bene comune e partecipazione sono parole del futuro, non di un passato nostalgico.
Ma se la prima battaglia è stata vinta, ora inizia la grande sfida, molto più sottile e profonda. Perché se proponiamo queste categorie è per aumentare il più possibile il benvivere di tutti, mentre quella che potremmo chiamare “l'assimilazione capitalista” sta provando a rivoltarle a vantaggio di pochi, utilizzando le nostre stesse parole in senso opposto.
Se come scrive Thomas Piketty “Il processo di accumulazione e di distribuzione dei patrimoni contiene in sé fattori talmente potenti da spingere verso la divergenza, o quantomeno verso un livello di disuguaglianza estremamente elevato” (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani 2014, p. 52), uno dei pochi baluardi che ancora orientano i flussi di beni e di valori a vantaggio di tutti è l'economia solidale. Se questa viene rivoltata l'effetto è pari all'inversione del flusso della corrente del golfo: rischiamo di trovarci tutti al freddo.
In fondo sapevamo che sarebbe arrivata, ma non ne conoscevamo le forme; ora invece si sta manifestando con chiarezza. A dicembre la rivista “Internazionale” pubblica l'articolo “Chi condivide e chi guadagna” dedicato proprio a queste mutazioni all'interno della cosiddetta “sharing economy”, analizzando con chiarezza i punti critici di alcune innovazioni che dietro la bandiera della condivisione mascherano il peggioramento dei diritti e delle condizioni di lavoro e flussi economici che vanno dai poveri verso i ricchi. L'articolo riporta esempi reali di applicazioni, alcune delle quali si stanno diffondendo in tutto il mondo, accessibili comodamente dal tuo smartphone.
A gennaio Tommaso Regazzola indaga la questione nel campo della piccola distribuzione organizzata (PDO) con l'articolo “Cosa possiamo imparare dalla assimilazione dei nostri obiettivi?” in cui analizza l'esperienza francese de “La Ruche qui dit oui!” che si sta espandendo in Francia e in Europa su iniziativa di investitori privati. I consumatori che partecipano a questi “alveari” scelgono prodotti locali ed hanno occasioni di incontro diretto con i contadini e con gli altri partecipanti, ma le transazioni finanziarie passano sul sito dell'organizzazione centrale che ne detiene il controllo e ne riceverà gli utili.
Come suggerisce Regazzola nella parte finale del suo articolo, invece di imprecare dovremmo piuttosto imparare dalla diffusione di questa esperienza, immaginando e creando esperimenti di piccola distribuzione organizzata che siano accattivanti e comodi come la Ruche ma distribuiscano il potere e gli utili alla rete locale. Il criterio guida per preferire una modalità rispetto ad un'altra è quello indicato dal talismano di Collecchio, si tratta di vedere quale rafforza maggiormente la rete. La questione è strategica, perché le reti di economia solidale si sostengono sui flussi trattenuti al suo interno, mentre si indeboliscono quando le risorse escono dalla rete, come nel caso dei dividendi incassati da investitori esterni.
Ora che tutte le imprese dichiarano di perseguire la sostenibilità ambientale e sociale, la sfida si svolge in modo più sottile nelle scelte dei consumatori sensibili: sapremo offrire catene di PDO accattivanti che mantengono i valori sul territorio? Sapremo raccontare la differenza rispetto ad un sano prodotto locale che arricchisce un investitore lontano? Avremo slancio per saltare senza cadere nella trappola del locale (“local trap”) in cui il locale diventa un fine in sé e non un mezzo per il benvivere?
I Gas si sono diffusi utilizzando la forza dei legami deboli, secondo cui le persone si possono ritrovare e fare delle cose insieme senza necessariamente una forte condivisione; come scrive Michele Bottari nel suo articolo "Dai Gas/DES agli orti collettivi", oggi questo ciclo di espansione è finito e rischia di essere riassorbito per la reazione omeostatica del capitalismo. La posta in gioco è enorme: sono i milioni di cittadini sensibili che ci circondano, che sentono la necessità di cambiare e che faranno la differenza a seconda della direzione in cui orienteranno le loro azioni e i loro acquisti.
Ora il confronto non si svolge più tanto sulla scala dei valori, ma piuttosto sulla coerenza e sulla efficacia della loro applicazione. Abbiamo quindi bisogno di mostrare che improntare le nostre azioni al benvivere di tutti è una possibilità concreta e vitale; dovremo innervare le nostre reti di legami forti che mostrino quanto si possa stare bene vivendo solidarietà, fiducia, reciprocità e sostenibilità.
Vedremo quali saranno le prossime tappe di questa grande sfida: intanto a febbraio pubblico questo articolo, Regazzola ci aggiornerà su altre esperienze francesi, sarà importante diffondere e confrontare esperienze di PDO, raccontarle e costruire comunità aperte che possano mostrare il senso del benvivere per tutti. Scambiamoci le prossime mosse.

Post Scriptum
Dopo aver pubblicato questo articolo ho scoperto che il tema suscita un certo interesse e che è già stato affrontato da prospettive anche molto differenti; riporto qui sotto i link ad altri articoli sul tema che mi sono stati segnalati.
 - "Sharing Economy: come il capitale assorbe la sua critica" di Alessandro Zabban su ilBecco;
 - "C'è Sharing e sharing" di Tiziano Bonini su doppiozero.
In particolare, l'ultimo articolo analizza la differenza tra "sharing economy" e "rental economy" chiarendo che "affittare non è condividere". "Sono a favore della produzione peer-to-peer e delle pratiche di condivisione, ma sono preoccupato da questi tentativi di sussunzione (incorporazione) delle pratiche realmente p2p da parte della retorica corporate della 'sharing revolution'. Non sono d'accordo quando pratiche e progetti come Shareable e Wikipedia - o più in generale stili di vita collaborativi di persone che si scambiano risorse, cibo, competenze, tempo - vengono assimilati e confusi con pratiche estrattive, che sfruttano i lavoratori per estrarre profitti da parte di aziende parassite".

Pubblicato su volontariperlosviluppo.it e comune-info.net.
Foto di Andrea Saroldi (2018).

Categoria: